5 maggio in Controluce

Ei fu. Siccome immobile,
data la fin del campionato,
stette il record immemore
dell’ultimo successo, trapassato
così percossa, attonita
Mirandola al nunzio sta,
muta pensando all’ultima gara
dello squadròn fatale;
ma sa che poi a novembre
una simil orma di piè mortale
la sua ordinaria polvere
a calpestar verrà. E gioisce.
La Controluce folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
(più spesso cadde, invero)
di mille voci al sònito
mista la sua non ha:
vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio,
sorge or commosso
al sùbito sparir di tanto raggio;
e scioglie all’urna
un cantico che forse non morrà.
Dalle Cupole alle Ferraris,
dalle Carducci al PalaQuinto, nondimeno,
di quella ciurma il fùlmin Cecce
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Mutina a Reggio Emilia,
dagli uni agli altri bars.
Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza:
nui chiniam la fronte al Massimo Fattor
Luigi Prandini,
che volle in Lei del creator suo spirito
più vasta orma stampar.
La procellosa e trepida gioia
d’un gran disegno; l’ansia d’un cor che indocile
serve, pensando al legno;
e il giunge, e tiene un premio
ch’era follia sperar;
tutto ea provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio;
diciassette volte nella polvere,
tre sole sull’altar.
Ea si nomò: due Federal,
l’un contro l’altro armato,
sommessi a lei si volsero,
come aspettando il fato;
ea fè’ silenzio, ed arbitra
s’assise in mezzo a lor.
Finché da Reggio
l’om dal coccigeo crine
candido disse: sì,
e in prima Prima Divisione
sbocciò la nuova rosa, alfine.
Ma, sconfitte Moka e PSA,
la Controluce sparve,
e i dì nell’ozio chiuse in sì breve sponda,
segno d’immensa invidia e di pietà profonda,
d’inestinguibil odio e d’indomato amor.
Come sul capo al naufrago
l’onda s’avvolve e pesa,
l’onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista
a scernere prode remote, invan;
tal su quell’accozzaglia umana
il cumulo delle sconfitte scese.
Oh quante volte ai posteri
narrar se stessa imprese,
e sull’eterne pagine
cadde la stanca man!
Oh quante volte,
al tacito morir d’un giorno inerte,
chinati i rai fulminei,
all’ennesima palla persa
il buon Carlese
le braccia al sen conserte stette,
e delle Piovre
l’assalse il sovvenir!
E ripensò alle mobili difese,
e a i ginocchi lassi,
alla doga dei Cadetti,
all’onta dei Giganti,
alle preci di Orazione
e alla Stella dei suoi fanti.
Ahi! Forse a tanto strazio
cadde lo spirto anelo, e disperò;
ma valida venne una man dal cielo,
e in più spirabil aere pietosa il trasportò;
e l’avviò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campetti estivi,
al premio che i desideri avanza: la salvezza,
dov’è silenzio e tenebre
la gloria che passò.
Bella Immortal! Benefica Fede
ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza
(quella del Presidente)
al disonor del Gòlgota
(e della disco a Guattarella
di Montemerlo di Bondeno)
giammai non si chinò.
Tu dalle stanche membra
di cotal giovani corpi
sperdi ogni ria parola:
il Woodman che atterra e suscita,
che lotta e che consola,
dalla mattonella amica
una tripla a mano sola
inopinatamente
infilò.

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commenti

2 commenti

  1. alessandro manzoni scrive:

    dovrei rivoltarmi nella tomba, ma mi date allegria! bravi

  2. bruno pizzul scrive:

    …siam-pron-ti-al-la-mor-te-l’ita-lia-chiamò.
    PAAAAR-TITI!

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